Secondo giorno a Quito e, dopo la classica colazione a base di papaya, marmellata, latte e cereali, il programma ci porta a visitare il Centro De Educación Integral Paola Di Rosa (CEPAIR).
Il CEPAIR sorge in uno tra i tanti quartieri malfamati di Quito, il barrio la Magdalena. Il centro è gestito da un gruppo di suore e svolge diverse attività a supporto della comunità del quartiere, le principali sono: formazione post scuola per togliere dalla strada i bambini, distribuzione di cibo e cura personale per senzatetto o comunque per persone che hanno difficoltà di ogni genere.
Ad accoglierci c’è Serafina, un metro e sessanta di suora dal peso stimato di 30kg quando piove, mingherlina ma allo stesso tempo con una forza di spirito incredibile.
Non si perde tempo, ci dividiamo in due gruppi e ci mettiamo subito al lavoro, io mi ritrovo nel gruppo di distribuzione della comida e per il servizio di taglio barba, invece il secondo gruppo era dedicato alla creazione di un nuovo murales. Ci sono già circa 30-40 persone in coda così iniziamo a distribuire riso e pannocchie lesse finché tutti sono sazi. Terminata la distribuzione del cibo, si dà il via al servizio di taglio barba, così finalmente posso esibire per la prima volta le mie doti di barbiere. Il mio primo cliente è Paco, una persona sui 60 anni di poche parole dal comportamento buffo. Incomincio a tagliare la barba con il rasoio bic che compri in bustine da 10, credo che Paco sia rimasto in apnea per tutto il tempo fino a quando non ho finito, non so se era preoccupato.. Comunque il risultato è più che ottimo e se in futuro voglio cambiare lavoro posso fare anche il barbiere, la foto ne da prova.
Riporto un pensiero che le suore hanno condiviso con noi, per le persone che non hanno niente è importante ricevere anche solo un minimo di attenzione per acquisire dignità.
Concluso il servizio comida e barba raggiungiamo l’altro gruppo per dare un mano con il murales, il lato artistico del gruppo stava facendo un buon lavoro così ho riposto la mia attenzione ad un personaggio ecuadoriano che stava pulendo la strada da solo. Mi sono avvicinato ed ho iniziato a dagli una mano, incredibile anche lui si chiamava Marco, un segno. Entrando un pò in confidenza con lui mi ha raccontato la sua storia, fa il carpentiere ed era lì perché quella mattina era arrivato tardi ad un appuntamento, doveva sistemare la porta di una casa ma il proprietario era già andato via, così non sapendo dove andare è passato per la comida e poi si è messo a lavorare nella speranza che le suore gli allungassero qualche dollaro. Mi ha raccontato un pò la sua vita, da giovane lavorava in aeroporto ma era un pò loco (matto) ed ha fatto tanti errori così fu licenziato, poi mi ha parlato di suo figlio che va all’università, però lo vede solo una volta all’anno perché ritiene di essere un brutto esempio di vita per lui e preferisce che viva con la madre. Ovviamente ho cercato di approfondire chiedendone il motivo, mi ha raccontato che è stato in prigione per molto ma non mi ha voluto raccontare il motivo e su questo non ho voluto insistere in quanto ho percepito che non gli piaceva ricordare quel periodo. Saluto Marco e appare da dietro suora Serafina che con una frase mezza in dialetto veneto e mezza in spagnolo mi fatto capire molte cose “varda chelì, non so quanta gente ha mata per 70 dollari”. Marco il sicario mi ha stupito , era talmente consapevole di essere nella strada sbagliata e di non poter più tornare indietro che teneva lontano da lui la persona a cui voleva più bene.
Ormai era metà pomeriggio ed il murales era quasi completato, così io e Vito fummo invitati a partecipare ad una partitella di calcio. A poca distanza dal CEIPAR c’è un’area di sfogo in cui vengono portati i bambini per fare una sorta di ricreazione.
Appena entro in campo subito sale un brivido lungo la schiena, il panorama è spettacolare, dal lato del campo si vede tutta Quito dall’alto. Incominciamo a giocare, i 3000 metri non aiutano ed il fiato diventa corto subito, non aiuta neanche il giocare 30 contro 30, ma riusciamo a vincere! Mi ricordo bene le voci dei bambini, appena toccavi palla tutti iniziavano a chiamarti Tio Tio (Zio Zio), volevano tutti la palla.
Terminata la partita e terminato anche il murales, suora Serafina ci porta a fare un giro del quartiere, vuole farci vedere alcune situazioni particolari. Ci racconta che è pericoloso girare nel quartiere ma lei non ha paura, viene rispettata da tutti. Ci fa evitare una strada perché lì spacciano e ci porta ad incontrare un ragazzo che avevo già notato durante la distribuzione della comida. E’ giovane, se non ricordo male aveva 28 anni, viveva in un pezzo di terreno incolto in pendenza. La sua casa era fatta da qualche lamiera bucata, un materasso buttato per terra ed uno specchio mezzo rotto che serviva per prepararsi, si per prepararsi.. Il ragazzo era chiamato da tutti la querrida (la cara) perché si travestiva da donna per prostituirsi.
Penetrando intensamente lo sguardo di questo ragazzo, ho provato una delle sensazioni più tristi di tutta la mia vita, ci ha raccontato che aveva un sogno, voleva diventare un ingegnere ma, nonostante fosse giovane, dai suoi occhi mezzi lucidi traspariva un senso di rassegnazione che è difficile da spiegare a parole. Non a caso nel descrivere il suo sogno aveva usato tutti verbi al passato.
Sia per Marco il Sicario che per la Querrida, credo che il luogo in cui nasci ti porta ad indossare un vestito che può essere più o meno bello o più o meno brutto, dipende da quanto fortunato sei, lo puoi cambiare comprandone un altro, sempre se la vita non è stata troppo dura con te ed hai ancora stimoli per farlo, come ad esempio qualcuno che ti accompagni.